Soltanto la cultura crea il dialogo in politica

A proposito d’un post precedente
Torno sul luogo del ‘delitto’, a proposito di una mia parentesi con tanto di punto interrogativo (vedi in questo blog), usata relativamente alle discussioni su Rimini «città confusa e felice» («Corriere di Romagna», 14 gennaio 2006). Mi sono chiesto parlando di cultura e politica se non si tratti della stessa identica minestra servita in due piatti diversi. Dato che l’argomento è serio, lo riprendo più da pedagogista antico che da inutile cronista.


Se prevale la politica

Esiste un nesso logico che collega e (de)limita il rapporto tra politica e cultura, per cui si potrebbero formulare due princìpi. Ecco il primo: data una tal cultura, si ottiene una tal politica. Diversamente dalla matematica (cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non varia), qui se rovesciamo il discorso muta tutto. Ecco dunque il secondo principio: data una tal politica, si ottiene una tal cultura.

Il primato della politica sulla cultura è quello delle società totalitarie. In ogni dittatura, è lo Stato a dettare le linee culturali. Ci soccorrono infiniti esempi che riassumiamo con il ricordo della «difesa della razza» (conclusasi con le razzìe e le morti nei campi di concentramento); e con la citazione sulle «guardie rosse» cinesi che distrussero (mediante uccisione, non in senso metaforico) il corpo insegnante non fedele ai precetti di Mao.

Il primato della politica è pericoloso dunque non perché sia in sé pericolosa la politica, ma perché la politica non è un idolo assoluto. La politica, per avere un volto umano che noi chiamiamo per comodità «democrazia», è e deve essere dialogo, confronto, mediazione, arte del possibile, non imposizione dell’impossibile che diventa realtà: l’eliminazione fisica degli oppositori poi trova sempre una giustificazione teorica, ovvero culturale. Non hanno ucciso i manganelli dei fascisti o i fucili di Mao, sono le loro idee che hanno mosso le braccia a cancellare le persone dalla faccia della terra. (Le idee camminano sempre sulle gambe degli uomini, mentre gli aspiranti dittatori hanno viaggiato in carrozza letto per marciare su Roma, 1922.)



Rispetto per tutti

Il primato della cultura quale dialogo e confronto, porta a concepire uno Stato costituito da forze molteplici, competitive non in base all’esclusione degli altri, ma capaci di cercare una soluzione comune ai problemi reali che abbiamo tutti, vincitori e vinti di una tornata elettorale, ovvero «tutti i cittadini» nel loro insieme indipendentemente dal credo politico o dalla scelta partitica compiuta.

Come esempio può servire il ricordo della rinascita postbellica dell’Italia con la formulazione della nuova Costituzione che fu punto di partenza e di arrivo di una cultura che aveva come unico scopo quello di evitare il ripetersi delle vicende tragiche dalle quali il Paese era uscito con una lacerazione drammatica. La quale lacerazione però non impedì il comune volere di creare una realtà politica nuova.

Fu così che nacque quel contrappeso tra i poteri (appunto) costituzionalmente garantiti che oggi sfugge ai più, e che sarà tema per il prossimo referendum sulle riforme portate di recente alla nostra Carta fondamentale. (E sul referendum concordo con quanto scritto da Nicola Tranfaglia sulla «Stampa» del 30 gennaio: c’è un disinteresse pericoloso sopra una riforma che scardina lo Stato.)



L’albero ed i suoi frutti

Obiezioni possibili. Esistono culture che conducono al totalitarismo. Sì. Ma esse, proprio per questo fatto, sono negazione dell’essenza stessa della cultura così come si è formata nei secoli e nei millenni attraverso i percorsi della Storia. La cultura dell’uomo primitivo era diversa da quella dell’uomo rinascimentale, e quest’ultima è all’opposto di quella del mondo contemporaneo uscito da quattro secoli di eventi (XVII-XX).

Se ad esempio si sostiene che non c’è stata eliminazione fisica degli Ebrei, eccetera, non si fa un’affermazione culturale, si è semplicemente fuori di ogni logica delle cose. Il «negazionismo» antiebraico non può essere una teoria culturalmente accettabile per il semplice fatto che essa, per affermarsi, deve rifiutare i dati di fatto.

La grammatica (spiegavo ai miei alunni) contempla i «nomi astratti», come «fame». Basta però un pezzo di pane (nome «concreto») per por fine alla fame (che non è un’idea vagante nell’aria ma un drammatico momento di vita). Quindi, è estremamente relativa ed assurda la distinzione fra le cose fatta per mezzo delle parole che possono variare secondo un’opinione soggettiva anche legittima. Sono i fatti che testimoniano le idee. Dal Vangelo siamo stati istruiti a considerare l’albero dai frutti che esso dà.

I gusti gastronomici o turistici o letterari non possono essere usati quali schemi per catalogare o discriminare gruppi di persone, come è accaduto invece con il pregiudizio razziale antiebraico. L’apparente contraddizione dello scherzo verbale fra l’astratta fame ed il concreto pane che la cancella, diventa drammatica contrapposizione logica di valori quando ci si ispira a concezioni che considerano l’Altro non come persona con cui convivere e dialogare, ma da scacciare, mettere a tacere e perfino uccidere.

Post scriptum. Queste considerazioni sono molto generali e per forza anche generiche non potendo dilungarmi. Inoltre, il discorso sulla realtà locale, sempre in merito al rapporto fra cultura e politica, richiederebbe un’ulteriore analisi che sarei lieto fosse avviato da qualche altra persona. Agli attenti lettori del nostro amato «Ponte», offro fraternamente la patata che scotta, per variare le voci nel coro, e non per timore reverenziale. In un recente scritto ho osservato che Rimini è una città «problematica», aggiungendo: «per usare un termine non pesante».

il Rimino – Riministoria

Rimini, 31.01.2006

Soltanto la cultura crea il dialogo in politicaultima modifica: 2006-01-31T11:24:40+01:00da rimino
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